SmartWorking: the day after.Come è andata e come affrontare il futuro.

La parola “Smartworking” ha registrato su Google Trends Italia un +120% di ricerche. Si è sentito di tutto in questi mesi: dalla sindrome della caverna, a proiezioni sul futuro di come sarà il nostro fisico dopo venticinque anni di smartworking. Vista da fuori, per noi che lo smartworking lo abbiamo attivato in tempi non sospetti, la situazione appare surreale: molti discorsi su vantaggi e svantaggi, pochissimi discorsi su metodologie e strategie per rendere i team remoti efficaci. Da qui la nostra “mini-guida” in doppio formato (il classico articolo e un book pdf, facile da condividere e da sfogliare sotto l’ombrellone) per condividere alcuni spunti concreti a partire dalla nostra esperienza.

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Introduzione: Smartworking a sopresa

Lo smart-working, in questo 2020, è entrato a sorpresa nella vita di tanti. Iniziato per molte aziende come necessità, si è poi trasformato in un’occasione per rendersi conto che “Ehi! Si può fare! Non serve essere tutti nello stesso edificio per far bene il proprio lavoro”.

Il passaggio non è stato indolore per tutte le aziende, colte impreparate sia dal punto di vista tecnologico, sia gestionale. Le resistenze rimangono tante: dalla spinosa questione del “controllo” alla subdola convinzione che il lavoro fatto da casa, non sia vero lavoro. È difficile prevedere quale sarà il destino del mondo del lavoro nei prossimi mesi, ma quello che è certo è che la macchina del cambiamento è partita.

Quindi caro imprenditore che nei prossimi mesi dovrai mettere sul piatto della bilancia il controllo del tempo da una parte, con i vantaggi dei costi ridotti per la gestione della sede dall’altra; caro manager che ti sei trovato ad organizzare i tuoi collaboratori online, e caro nuovo smartworker che hai assaggiato la felicità di lavorare in camicia (sopra) e pigiama (sotto), questo articolo è per voi.

Non tutti le professioni sono fatte per essere svolte in maniera remota: sono avvantaggiati quei lavori che prevedono una buona dose di tempo da impiegare nel lavoro individuale, possibilmente davanti ad un pc.

E qui entriamo in campo noi, svelando il primo arcano:

per noi “nerd” lo smart working non è una novità.

Se state immaginando il classico stereotipo del professionista IT chiuso nel proprio stanzino a programmare al buio, tra lattine di cocacola e avanzi di pizza, vi state sbagliando di grosso. Il mondo delle nuove tecnologie di oggi, è pieno di microprofessionalità verticali che si devono organizzare e sincronizzare come orologi svizzeri per lavorare al meglio… in sostanza tutti i problemi che oggi state vivendo per la gestione di un team remoto, noi li abbiamo affrontati anni fa, con il supporto del mondo agile da una parte e della forma mentis da ingegneri dall’altro.

Per cui, prima di calare la scure del giudizio sullo smart working a partire da quella che è stata la vostra prima, eccezionale, esperienza, vi consigliamo di leggere questi 8 punti che abbiamo stilato a partire dalla nostra storia degli ultimi anni (errori compresi).

Accettare il cambiamento

Prima di entrare nel vivo è bene condividere un presupposto: se il lavoro da casa è oggettivamente diverso dal lavoro in ufficio, è necessario entrare nell’ottica che anche l’organizzazione del lavoro dovrà essere diversa. Pensare di copiare tutte le modalità di interazione che normalmente mettiamo in atto quando lavoriamo condividendo lo spazio è un “suicidio organizzativo”. Il risultato? Colli di bottiglia, persone sempre al telefono, tempi di lavoro protratti all’infinito per chiudere i task e scontento generale. Attivare un progetto di smart working significa accettare di spendere del tempo per organizzare il team e per sincronizzarsi al meglio con i colleghi. E questo vale per qualsiasi settore, dal team IT, all’ufficio amministrativo, alla selezione del personale.

Il passaggio più difficile da mettere in atto è passare da un sistema basato sul “controllo” delle risorse ad uno basato sull’autonomia. Nello smart working autonomia è sinonimo di efficienza: nessuno dovrebbe mai trovarsi nella condizione di essere bloccato e dovrebbe essere sempre in grado, nel caso in cui un task non sia risolvibile in quel preciso momento, di attingere da un elenco, condiviso e ordinato secondo priorità, di cose da fare.

Autonomia non significa che ognuno fa quello che gli pare! L’ingrediente di base dello smart working è sicuramente la fiducia, ma lo è anche saper trasformare il “controllo” in organizzazione. Quando il lavoro è strutturato a obiettivi e ben pianificato, il dubbio che i tuoi collaboratori o i tuoi colleghi passino tutto il giorno a fare altro, non ti verrà mai.

Obiettivi e priorità: adotta una kanban!

Ogni lavoro è scandito dalle scadenze e orari: che sia la classica consegna per un cliente, una scadenza fiscale, un appuntamento o la produzione di documentazione entro la data X, il tempo la fa da padrone in tutte le professioni.

Quando le scadenze si avvicinano, la tensione sale. Se siamo tutti nella stessa stanza abbiamo la sensazione di avere sotto controllo “chi-sta-facendo-cosa” (sicuri?) e il check di avanzamento del progetto è a portata mano. Diversamente, quando siamo lontani, dobbiamo mettere in atto dei meccanismi di organizzazione affinché le persone:

  • siano in condizione di lavorare in maniera autonoma;
  • conoscano le priorità;
  • sappiano a chi chiedere nel caso di mancanza di informazioni.

Significa pensare il lavoro ad obiettivi, possibilmente piccoli, che possano essere facilmente distribuiti secondo le responsabilità e le competenze. Ma come posso sapere cosa stanno facendo gli altri?

Un buon punto di partenza, ad esempio, è adottare una kanban board. Figlia del mondo Lean, la kanban board è una lavagna condivisa, con più colonne che descrivono l’avanzamento di un task. Queste colonne vengono occupate da “card” (nella versione fisica si utilizzano i famigerati post-it), ciascuna con un piccolo goal da portare a termine. Le card vengono distribuite e, man mano si procede nel lavoro, ciascuna card procede da sinistra a destra tra le colonne: è una sorta di checklist (da fare / fatto), ma decisamente più evoluta. Una formulazione tipica della kanban prevede queste colonne:

  • Backlog: dove andiamo ad inserire tutto quello che prima o poi andrà fatto
  • Ready: estrapoliamo dal backlog le prossime card da fare
  • Run: sono le card in corso, ovvero quelle su cui qualcuno sta lavorando
  • Test: il lavoro è terminato, verifichiamo che funzioni
  • Done: fatto! L’obiettivo è stato raggiunto.

Ovviamente le colonne possono essere aggiunte, tolte e adattate a ciascun contesto.

La kanban è una fotografia di gruppo. Se aggiornata con costanza ci dà due informazioni importanti senza dover chiedere: chi sta facendo cosa e in generale come procede il lavoro dell’intero team.

La kanban aiuta anche sul fronte autonomia. Nel momento in cui una card si blocca per qualsiasi motivo (attesa di una risposta, informazioni mancanti, cambio di priorità) il backlog funge da “ombrello”: chiunque può pescare una card da lì e continuare ad essere operativo.

Da dove si comincia? Dalla mattina

Lo smart working “duro e puro” (che è diverso dal telelavoro) non prevede vincoli di orario o di luogo. Se mi sento più produttivo alle 10 di sera, in un parco ascoltando il canto delle upupe, benvenga. Purché queste scelte non impattino sul team.

È bene quindi stabilire dei momenti di sovrapposizione noti a tutti, concordando un orario per ritrovarsi e fare un check sugli obiettivi giornalieri.

Gli stand-up meeting, ad esempio, sono uno strumento estremamente efficace: brevi riunioni in cui a turno, si racconta cosa si è fatto il giorno precedente, qual è il piano per il giorno corrente ed eventualmente, quali impedimenti possono rallentare. Perchè si chiamano standup? Perchè dal vivo andrebbero fatti in piedi: la scomodità o la postura diversa ci devono ricordare che non sono un meeting come tutti gli altri. Devono essere partecipati e, soprattutto, rapidi.

Approfondimenti sugli standup )

L’attimo fuggente: ovvero arrivare a fine giornata e chiedersi “ma cosa ho fatto oggi”?

Lavorare da casa significa mettersi al riparo dalle distrazioni. La casa è un ambiente insidioso, ricco di tentazioni, soprattutto quando non si è da soli o non si ha la possibilità di avere uno spazio dedicato e isolato.

Se lavorare per obiettivi deve diventare il vostro mantra, il secondo punto su cui è importante porre l’accento è evitare il più possibile le interruzioni. Questo aspetto va al di là di un mero discorso di produttività: la gestione fluida del tempo tra “lavoro” e “riposo”, il non avere orari, non staccare mai può generare delle situazioni di stress molto forti e rendere lo smart working un vero e proprio incubo).

In questi casi tracciare il proprio tempo (time tracking) diventa fondamentale: ci permette di capire quali sono i “mostri mangia tempo”, ovvero i fattori scatenanti che ci portano a rispondere alle email alle dieci di sera. Le eccezioni ci saranno sempre: un giorno particolarmente pieno, l’imprevisto, la consegna. Ma deve essere eccezione e non quotidianità. Lo smart working deve prevedere una gestione del tempo che si concili sia con i tempi del team che con quelli della propria vita. In questo senso, il time tracking non dà soluzioni, ma suggerisce i sintomi che è bene curare.

Come funziona il time tracking? Semplicemente segnate le cose fatte, e accanto ad ogni task indicate da che ora a che ora. Vale qualsiasi strumento: carta e pennarelli, un pratico foglio excel o uno dei tanti sistemi di time management online come toggl.com o Clokify. L’importante è segnare il tempo in maniera sincera e oggettiva.

Sì. Lo sappiamo. Non è divertente e a volte è davvero difficile ricordarsi ogni singolo task. Ma è il primo passo per scoprire che fine fa il tuo tempo (e trovare delle soluzioni per riprenderselo).

L’importanza dei rituali

Non è solo il nostro tempo quello di cui dobbiamo imparare a prenderci cura, ma anche quello dei nostri colleghi.

La condivisione di uno spazio, di un ufficio, porta con sé una serie di rituali inconsci. Dal modo di salutare, agli oggetti sulla scrivania, alla calibrazione dell’umore dei colleghi tramite la foga con cui si premono i tasti sulla tastiera, al numero di volte in cui un telefono squilla. Sono tutti segnali che assorbiamo quando siamo nello stesso spazio e che, in maniera più o meno conscia, vanno a modificare il modo in cui ci relazioniamo gli uni con gli altri. Quando siamo insieme, infatti, è più facile intuire il “momento opportuno per chiedere…”, quando proporre una pausa, o quando confrontarsi su un determinato argomento.

Molti di questi elementi non verbali o paraverbali nel lavoro remoto ce li perdiamo. Ecco alcune situazioni che possono venirsi a creare.

Il “centralinista”

Chi ha la responsabilità di coordinare, diventa il punto nevralgico di ogni interruzione. Capita a tutti di essere bloccati, di avere bisogno di informazioni che devono arrivare da altri. Capita di avere bisogno di un confronto, di un consiglio… e il telefono è lì a portata di mano.

In questi casi, è importante definire un grado di urgenza e quando è possibile, prima di chiamare prediligere i “canali asincroni” come chat, email o in generale tutti quei mezzi in cui la persona dall’altra parte del filo può rimandare di qualche tempo la risposta, senza necessariamente interrompere la sua attività. Con il lavoro remoto non sappiamo se la nostra telefonata è la prima della giornata o la centesima: stabilite con il vostro team una gerarchia dei mezzi di comunicazione da usare, lasciando il telefono solo per le questioni non rimandabili.

La sindrome dell’abbandono

Il passaggio al lavoro in autonomia non è sempre indolore, soprattutto per chi ha bisogno di numerose conferme sul proprio operato. Non è un qualcosa di deplorevole: ci sono task delicati che richiedono più occhi o semplicemente ci sono figure junior che hanno bisogno di essere guidate più degli altri.

Per questi casi una soluzione possibile è stabilire delle call di gruppo a frequenza nota o stabilita a priori: in questo modo quando mi rendo conto di essere bloccato e di non riuscire a trovare una soluzione immediata, so che all’ora X qualcuno mi dedicherà del tempo.

I rituali sono importanti perché infondono fiducia e senso di appartenenza al gruppo sostituendo, in parte, tutti i momenti di aggregazione tipici della vita da ufficio.

In CodicePlastico, ad esempio, durante la giornata abbiamo due momenti coffee break remoti, una playlist su spotify dove condividere musica e svariati canali slack, completamente OT dal lavoro, dove fare quattro chiacchiere o scambiarsi pareri sull’ultima serie tv del momento.

Lo spazio: costruisci la tua oasi lavorativa

Non sempre è possibile avere uno spazio dedicato, non sempre è possibile essere a casa soli.

Da questo punto di vista i mesi di emergenza Covid-19 non possono essere un buon metro di misura per valutare in assoluto l’esperienza smart working: le scuole chiuse, l’impossibilità di uscire, lo stress generale della situazione hanno avuto una parte importante nelle nostre giornate per molto tempo. Tuttavia, se continuerete a lavorare in smart working anche nei prossimi mesi, è ora di cominciare a costruire la vostra personale oasi lavorativa.

Stabilire i confini

Separare fisicamente ciò che è casa da ciò che è lavoro, aiuta a vivere il lavoro remoto in maniera sana.

L’ideale è avere un luogo dedicato, quando questo non è possibile è necessario fare in modo che lo spazio sia facilmente trasformabile in una o nell’altra modalità. Alla sera fai sparire tutto quello che appartiene al “momento lavoro” e goditi la tua casa.

Negozia delle regole a chi vive con te

Il bilanciamento tra “casa” e “lavoro” non riguarda solo gli spazi, ma anche i tempi.

Inizialmente non sarà facile spiegare a famiglie, amici e parenti che, anche se siete a casa, non siete completamente accessibili. Il primo passo è definire delle zone franche, degli orari e degli spazi, in cui siete indisturbabili.

Non dimenticarti della postura

Se lavorate al pc tutto il giorno tutti i giorni, assicuratevi di avere una postura corretta anche da casa.

Basta poco: evitate di lavorare sempre da laptop e collegate una tastiera esterna, un monitor e un mouse. Lo stesso vale per l’altezza del tavolo e della sedia: verificate che almeno le regole ergonomiche di base vengano rispettate. Può sembrare una banalità, ma stare “accartocciati” davanti al pc per un lungo periodo può portare seri problemi fisici.

Pensa al piano B

Cosa succede se la rete non va? Cosa succede se i vicini decidono di ristrutturare il bagno e il soave suono del martello pneumatico accompagna ogni vostra call?

Un piano dati sul cellulare, un buon paio di cuffie che isolano i rumori, verificare la presenza di coworking nella zona o lavorare a casa di… sono tutte possibili soluzioni. Se si lavora in modalità remota con con continuità, prima o poi la giornata storta capiterà: l’importante è essere preparati.

La netiquette

Se parliamo di netiquette, subito affiorano cari vecchi ricordi dei primi anni 2000, delle chat di Mirc, di quel territorio nuovo e inesplorato che era “internet di una volta”, in cui i le prime community online cominciavano a darsi delle regole di buona e pacifica convivenza.

L’eccezionalità dello smartworking di questi mesi è stata dettata anche dalla mancanza di gradualità: ci siamo trovati a lavorare da casa, tutti, dalla sera alla mattina. E tutti, significa, tutti: non solo colleghi, collaboratori, ma anche i clienti, potenziali clienti, fornitori. I nostri device hanno cominciato a riempirsi di notifiche, email, chat, calendari e call a qualsiasi ora del giorno.

Siamo sinceri: a chi non è capitato di inviare una mail di richieste nel week end o nel cuore della notte, magari nell’unico momento di pace della casa?

Come è successo ai pionieri del www, anche noi dobbiamo provare a darci delle regole per evitare che lo smart working diventi un incubo ad occhi aperti di notifiche e richieste fuori orario.

Night & Day

Fate gli orari che volete, ma ricordate sempre che gli orari possono non coincidere con quelli dei colleghi, clienti o fornitori.

Prima di mandare un *messaggio in una chat con 10 persone al sabato sera, verificate che sia il canale più adatto, sia per non irrompere nel week end altrui, sia perchè si potrebbe ottenere esattamente l’effetto opposto: un messaggio letto distrattamente a metà di un film o alla seconda birra della serata e immediatamente dimenticato.

Usciamo anche dal mito “dell’iperlavoro” o del “sempreimpegnato”: mandare un messaggio nel cuore della notte non vi farà apparire come il martire votato alla causa. E se vi piace lavorare quando buona parte del resto del mondo riposa, nessun problema: strumenti come Gmail o Slack che consentono la programmazione di messaggi nel futuro.

La storia di Pierino e il lupo: non può essere tutto urgente

Se viviamo costantemente connessi e bombardati da informazioni rischiamo seriamente che la selezione delle informazioni importanti diventi un lavoro vero e proprio.

Per questo, almeno all’interno del team, è bene accordarsi sui canali, stabilire una gerarchia per le urgenze (suona il telefono il sabato pomeriggio? Ok come minimo deve andare a fuoco l’ufficio) e infine *evitare l’effetto “Pollicino” lasciando in giro informazioni come la stradina di bricioline tra un canale e l’altr (“Ti mando una mail, l’allegato su whatsApp, poi ti scrivo su slack, ma ti chiamo da Meet”).

Gli strumenti: aka “mi sentiiii?”

Le call conference non possono essere la traduzione 1:1 di un meeting di persona. Nel remote working i tempi sono spesso serrati, e gli strumenti che scegliamo possono inficiare l’interazione che già, causa remoto, manca di tutte le informazioni che istintivamente catturiamo con la sfera non-verbale. Per cui:

  • Verificate di avere una buona connessione a internet: non c’è nulla di peggio che decifrare un discorso che sembra più un messaggio morse che una frase di senso compiuto. Eventualmente, durante le call ricordatevi di limitare i servizi mangia banda (sincronizzazione di dropbox, google drive e simili o qualcuno in un’altra stanza che guarda Netflix!)
  • Cuffie con microfono: soprattutto se condividete lo spazio con altre persone, evitate il microfono ambientale del pc e trovate un paio di cuffie o auricolari con un microfono dedicato (e vicino alla vostra bocca). Se alla call partecipano tante persone, impostate il microfono in muto e attivatelo solo quando prendete la parola. In questo modo si azzereranno tutti i rumori ambientali dei partecipanti.
  • Usare la webcam aiuta a dare credibilità alla nostra presenza, anche se remota, e a calibrare l’interesse degli interlocutori. Per cui, bando alla timidezza, quando è possibile, guardiamoci in faccia.
  • Timeboxing, ovvero l’arte di dividere il tempo in slot (e imparare a rispettarli!). Sulle tecniche di timeboxing ci sarebbe molto da dire (e da leggere), ma un buon primo esercizio può essere definire la durata delle riunioni e cercare di stare nei tempi. Se si va per le lunghe, cercare di capire cosa è successo (si è parlato di altro? Si è discusso di un argomento che si è rivelato spinoso? ) e riprogrammare un meeting successivo per le parti mancanti. Non sempre è possibile, non sempre è facile avere a disposizione tutti partecipanti, ma cominciare a scandire i tempi, soprattutto internamente, ci toglie dalla percezione errata di avere tempo infinito perché “tanto sei a casa”.

Alla fine, ne vale la pena?

Lo smart working e il remote working hanno lati positivi e negativi. La formula mista, alcuni giorni in ufficio, alcuni giorno da remoto, è la soluzione che permette di coniugare i vantaggi del lavoro da ufficio con quelli del lavoro da casa. Una cosa è certa: lo smart working va organizzato, non si improvvisa e le persone non possono essere lasciate a loro stesse. Ma è anche una bella sfida, per consolidare gruppi, creare sinergie nuove e lavorare meglio.

Quindi sì, per noi ne vale la pena, e speriamo di avervi dato qualche suggerimento concreto affinché possa valerne la pena anche per voi.